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Prime riflessioni di una infermiera in servizio in Perù

2 Maggio 2018 AUCI 0 Comments

Credo che prima di partire le domande che più di frequente mi ponevo erano:  

  • Mi sarei ambientata?
  • Sarei stata all’altezza?
  • Avrei sentito la nostalgia di casa?
  • Sarei stata in grado di superarla?

Sono in servizio da poco più di un mese e a gran parte di queste domande non ho ancora dato una risposta.

Prima del 20 febbraio, passati ormai diversi mesi dalla domanda di candidatura, dal colloquio, e dai risultati della selezione, l’inizio dell’anno di servizio civile aveva solo le sembianze di una data dopo la quale la mia vita sarebbe, almeno nelle cose più macroscopiche, cambiata. Intanto, non si potevano prendere impegni a lungo termine, si era sottoposti a una “mitragliata” di domande da parte di amici e parenti a cui però non si sapeva rispondere. Non è dalle pagine che descrivono il progetto che si capisce cosa ti aspetterà, e neanche dalle ricerche fatte su Wikipedia o dai racconti dei ragazzi che hanno già fatto questa esperienza. Certamente queste cose contribuiscono, aiutano a cercare di capire, ma sempre di più, credo che ogni progetto lentamente si va a plasmare anche sul contributo che ciascun volontario/a può dare, e soprattutto vuole dare. La nostalgia di casa si sente, ma, per quello che mi riguarda, il tempo passato è troppo poco per riuscire a distinguerla da una semplice assimilazione della novità. Secondo me qui in Sud America, la differenza è più a livello superficiale che profondo: l’architettura è diversa; il cibo è diverso; il modo di vestirsi, di fare la spesa, di divertirsi e le case della maggior parte delle persone sono diverse. Non per questo però necessariamente peggiori, o meno avanzati. Anche i ritmi sono diversi. Le giornate delle persone ruotano attorno al lavoro, e proprio per questo, non c’è bisogno di correre. Prima di partire, informandomi su Huancayo, avevo pensato che fosse un posto dove non avrei capito in un solo anno dove stesse il bisogno. Invece non è stato così, e mi sento un po’ impotente, perché di necessità ce ne sono, e vorrei essere un contributo percepibile per le giovanissime colleghe con cui lavoro, che davvero, anche se per lo più formatesi da sole o per strade alternative, sono piene di entusiasmo, forza e voglia di migliorarsi e migliorare la comunità in cui vivono. Mentre io ancora sto cercando di uniformarmi a ciò che sanno, e non sono certa che quello che posso portare io sia l’apporto che stanno cercando. Il mio campo è salute, e tutto, in questo nuovo continente è molto diverso. Sono diverse le malattie, sono diverse le disponibilità dei farmaci e dei soldi. Certo potrei dire, che cosa, per una determinata malattia, somministravano i medici in reparto a Bologna; ma qui, probabilmente, quella cura non c’è ….. e se fosse da comprare? ….. sarebbe una spesa sopportabile? ….. e soprattutto, la gente la accetterebbe?

Quindi, per ora mi limito a vedere quello che c’è, e a capirlo. Cerco di studiare le piante, le pratiche come la riflessologia, e talvolta mi “alleno” anche a credere che funzionino. La cosa particolare che ho notato è la comunità, cioè lo spirito di comunità: qui la gente lavora e nel tempo libero vuole continuare a lavorare per migliorare la propria comunità. Credo sia un interessante spunto di riflessione perchè, quando, in paesi come l’Italia, lo Stato garantisce di più, l’uomo è più egoista, dove invece lo Stato garantisce di meno, l’uomo è più solidale. Non è facile abituarsi a questo concetto. Non è facile perché questo significa mettersi da parte, significa ribaltare le proprie priorità e lavorare per un fine comune. Anche le persone, o forse la società stessa, sono molto diverse. Lavoro in un ambulatorio dove l’unico medico è un dentista che visita due volte alla settimana. Quando arriva un paziente, questo cerca una risposta che non ha ritenuto adeguata in ospedale, e si fida, ed effettivamente, da quello che posso vedere, spesso funziona. I bisogni infatti sono per lo più basilari: insegnare cosa e come mangiare, evidenziare l’importanza dell’igiene, aprire gli occhi alle persone su ciò che dovrebbero pretendere. Questi, infatti, sono i pilastri principali su cui si basa il lavoro che portiamo avanti nelle periferie con i cosiddetti “viejitos”, cioè trascurati e abbandonati dalle famiglie, dallo Stato o da loro stessi. Le persone qui a Huancayo, non sono aperte, ma accoglienti. Le frasi, infatti, con cui si sono presentate la maggior parte delle persone sono state: “Ricordate che per qualsiasi cosa abbiate bisogno, quest’anno siamo la vostra famiglia, non vergognatevi e non abbiate paura”. Quello che per me sta costituendo un ostacolo fastidioso è la lingua. Lo spagnolo, in particolar modo quello peruviano, è estremamente comprensibile. Ciò che non è altrettanto immediato, è parlarlo o scriverlo. Quando mi capita di lavorare in accettazione, la mia strategia è diventata quella di far compilare tutte le cartelle cliniche ai pazienti stessi. Mentre nelle conversazioni sono più predisposta all’utilizzo di uno spagnolo che si basa su troncamenti di parole italiane, piuttosto che aggiungere la tanto saggia “-s” finale. A giudicare da come mi guarda la gente la maggior parte delle volte, non è una grande strategia. Quello che però sento di aver capito fino ad ora è che, grazie a questa esperienza privilegiata posso conoscere la vita in un altro paese diverso dal mio. Si va via da casa, dalla propria “zona sicura”, per essere inseriti in una situazione piccola, concreta: una di quelle situazioni che si fa di tutto per trovare quando si viaggia per avere l’occasione di conoscere davvero un paese. Si entra in questa realtà come se ci fosse un posto che ci aspetta, e non necessariamente come uno straniero, o meglio, sì da straniero, ma ben accolto dalla comunità.

di Cloe Gelsi
volontaria di Casco Bianco a Ocopilla di Huancayo, Perù