• Home
  • PERCHÈ QUI…SI MORDE LA VITA

PERCHÈ QUI…SI MORDE LA VITA

21 Aprile 2017 AUCI 0 Comments

È davanti a questa meravigliosa distesa di acqua e a questo giardino che ormai ha ripreso vita che mi piace sostare spesso dopo le ore in ospedale.

Di fronte a questa immensità ripercorro le giornate aggiungendo qualche tassello. Penso ai piccoli passi che ogni giorno mi rendono un po’ più distante dalla persona che ero prima di partire, mi rendo conto che questo posto ti fortifica sotto alcuni aspetti e ti rende allo stesso tempo più vulnerabile per altri. Mi accorgo che la curiosità dell’inizio, la foga di voler scoprire tutto e subito lascia spazio ad una voglia di conoscere meno prepotente e impaziente, più cortese perché la sorpresa, l’inaspettato e l’inatteso arrivano senza chiedere.

Nello scenario comune, Africa è mancanza di acqua e cibo, bimbi nudi con le pance gonfie e persone abbandonate al loro destino. Non ho ancora trovato nulla di tutto questo; qui si combatte, ci si aggrappa alla vita in tutti i modi, spesso “alla meno peggio”, accettandola per quella che è, come viene.

Guardo i pazienti, trascorro ore vicino a loro condividendo lo spazio di una corsia di ospedale. Tutti accomunati da una cosa: la malattia, tutti uniti in un unico obiettivo qui universale, mordere la vita.

Ho visto donne vivere il dolore per la morte di un figlio o del proprio marito con una compostezza disarmante; all’inizio non capivo come fosse possibile, come riuscissero a disperarsi e poco dopo a raccattare gli stracci e tornare a casa. Sento che neanche adesso riesco a comprendere pienamente il funzionamento di questo meccanismo, umanamente lo descriverei come istinto di sopravvivenza. 

I concetti di vita e morte sono lontani anni luce dai nostri ma sto iniziando a comprendere le dinamiche del ciclo della vita e della sopravvivenza qui nel Continente Nero.

Il dolore è dolore ovunque, cambia però il modo di viverlo. In ospedale in qualche modo e in qualche forma è sempre al tuo fianco, a volte ti sorprende ed ogni volta che qualcuno se ne va, c’è qualcosa che in te cambia. Lo sgomento delle prime perdite ad un certo punto scompare, non lo senti più; non perché ci si abitui alla morte ma, brutalmente, si comincia a fare i conti con una realtà più cruda, quella senza veli e senza pillole indorate.

Felicità e sofferenza si alternano, spesso, in quella stanza dove la luce penetra attraverso vetri martellati, dove l’aria asettica si mescola all’odore ferroso di sangue e disinfettante, quel luogo in cui, sullo stesso freddo tavolo operatorio a colpi di filo e bisturi, si priva della femminilità una donna e poco dopo se ne rende madre un’altra.

Fino a qualche tempo fa non immaginavo come potesse essere pesante il corpo senza vita di una donna di non più di 40 chili. Alcune immagini non le cancellerò mai dalla memoria: non riuscivo ad infilarle la manica del vecchio vestito blu, non riuscivo ad ascoltare il lamento silenzioso della madre e quello esasperato, diventato ormai nenia, della figlia che continuava a chiamarla come se questo potesse farla tornare in vita; non ho smesso per tutto il tempo di fissarle lo sterno e sperare che ricominciasse ritmicamente ad andare su e giù… ma non è stato così. L’abbiamo avvolta in un lenzuolo bianco prima che l’addetto del mortuary venisse a prenderla. Mi piace pensare che il suo spegnersi sia stato il passo verso un mondo migliore dove l’HIV non ti annienta fino a farti diventare l’ombra di te stesso. 

Quasi di pari passo, nella stessa corsia, si aggira un po’ nascosta e quasi in disparte la gioia: è quella che provo quando mi soffermo ad osservare dal reparto i pazienti dimessi che si avviano all’uscita con i loro zainetti colmi di farmaci e speranze perché “per questa volta ce l’hanno fatta”. È stato un brivido quando, poggiando la mano su un pancione e palpandolo un po’, sono riuscita a distinguere perfettamente una testolina già in posizione e quasi pronta per tuffarsi in questo bizzarro, a volte incomprensibile, ma fantastico mondo.

L’ho sentita dentro la commozione quando ho guardato i bambini, questi piccoli grandi lottatori, entrare nel centro HIV in fila per prendere i farmaci prima di tornare a casa per le vacanze e con il loro secchiello pieno di veleno salvavita li ho trovati poco dopo ridere e correre quasi sembrasse che quei cestini contenessero pillole di felicità.

E dopo tutto questo, le immagini si raccolgono insieme e passano nella mente come in un time lapse, ed è in quel preciso istante che mi fermo a riflettere: ma noi, popoli a nord dell’Equatore, abbiamo realmente afferrato il vero senso e la vera bellezza della vita?

Ylenia Pierdomenico, Casco Bianco in Kenya